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Corso di italiano per francesi, Cours d'italien pour français, Parigi, Paris, 7e arrondissement, 75007, Tous niveaux: débutant, intermédiaire, avancé, Tutti i livelli: principiante, intermedio, avanzato

mercoledì 30 dicembre 2015

Coabitare o convivere: l'ultimo quesito



Avevo deciso già da qualche tempo di sospendere questo blog, diventato un po' inutile dopo la fine dei corsi di italiano. I post si sono fatti sempre più rari ed hanno riguardato sempre meno questioni di lingua; smettere è quindi logico.
Perciò questo biglietto è anche un saluto a quei pochi che lo hanno seguito. Chissà, forse riprenderò Italianonelsettimo un giorno, se mai ci sarà un altro corso, ma non so dirlo adesso.
La Francia che ho visto e vissuto in quest'anno 2015 ha anche rimescolato in me pensieri che si erano sedimentati e mi ha fatto capire di avere altri motivi più profondi e personali che attualmente non mi aiutano a continuare il mio confronto con la cultura francese sulle basi consensuali che ho avuto finora. Quindi per ora è più urgente occuparmi di altro, e in un altro modo.

Ho scritto e riscritto cento volte questo biglietto, ed alla fine ho deciso di limitarlo ad una sola serie di domande.

Questo è nato come un blog che si occupa di lingua e civilizzazione, non come un forum in cui si discute di politica e filosofia. Ma da Charlie Hebdo al Bataclan, il 2015 è stato difficile per tutti. Per me il più difficile è il contorno di tutto questo, fatto di una semantica sovraccarica e indigesta.
Charlie Hebdo era ancora, come le Torri Gemelle del 2001, un obiettivo molto caratterizzato ideologicamente; si poteva pensare che l'Islam radicale volesse punire delle idee e delle opere precise, una certa "aggressività" del capitalismo o della satira, forse perfino un certo radicalismo esasperato dell'anti-religiosità di Stato (così intesi l'attentato di gennaio).
Invece il concerto al Bataclan, la partita allo Stade de France e ancor di più le terrazze dei ristoranti parigini non sono portatori di una simbologia ideologica di parte, sono obiettivi per noi "banali", e questo mi fa molta più paura. Del resto, la rivendicazione non poteva essere più chiara: ciò che è stato colpito il 13 novembre è il nostro modo di vita quotidiano, fatto di musica, incontri, sport. E poi, soprattutto, fatto di condivisione, di chiacchierate sincere tra amici a viso scoperto, di uomini e di donne che si sanno guardare negli occhi, senza veli in mezzo: una condivisione che lo stato islamico definisce "depravata" e che per noi costituisce l'essenza della civiltà. Anche il fatto che certi giornalisti attribuiscano questo stile di vita ad una fantomatica e limitata “génération Bataclan” mi ferisce come un esproprio ingiusto: uscire di casa, esporsi al mondo e nello stesso tempo guardare il mondo, discutere della vita con gli amici, ascoltare e praticare musica, è un modo di vita cui si aderisce anche a 40, a 50, a 60 anni ed oltre, con le sole limitazioni contingenti di un ritmo di vita che si evolve.
Ma questo è un dettaglio.
È molto più importante, invece, quello che un paese ed un popolo esprimono di se stessi. Lo stato islamico, come un'antica setta medievale, parla dell'Occidente come del regno della depravazione; si è detto giustamente che vuole dividere, polarizzare, radicalizzando il conflitto e mettendo dalla propria parte chiunque si senta escluso dal sistema culturale occidentale. Coltiva l'odio e la guerra "santa" come mille anni fa il cristianesimo faceva le sue crociate.
Vi ricordate, forse, che il termine "santo" viene da "sanctus", strettamente apparentato con "scisso", con "sancito" e con “setta”? È santo quel che non va mescolato, che anzi va tenuto separato.

E la Francia cosa dice, come si esprime? Anche la Francia fa sante crociate. Di un altro segno, ma sempre sante crociate sono. Perché, in un'opposizione ideologica così radicale, gli atteggiamenti risultano così tristemente simili? La Francia parla di laicità come fosse una religione di stato irrinunciabile ed assoluta, parla di togliere la cittadinanza ad alcuni come la si è data, quasi fosse un premio o una medaglietta per i bambini bravi e meritori a fine anno scolastico.

Subito dopo gli attentati di novembre, su un social network, partecipavo ad un dibattito a proposito degli attentati di Parigi e del rapporto che ha questo paese con le popolazioni immigrate e anche con quelle ormai radicate da tempo, ma che non  riescono a “dimenticare” la propria origine (sì, lo dico apposta: l’assimilazione che la Francia richiede implicherebbe un oblio spesso impossibile).
E mentre scrivevo mi sono reso conto brutalmente di non conoscere in francese un'espressione soddisfacente per il concetto di convivenza. Non a caso, mi ha aiutato a chiarire il mio pensiero l'intervento di una persona di origine italiana, come me. I francesi hanno il termine "cohabitation" e devono sostantivare un verbo per creare l'espressione "vivre ensemble" che altrimenti non ha un sostantivo suo. Ieri, mi è capitato di ascoltare in televisione un dibattito in cui questo concetto di "vivre ensemble" veniva richiamato per precisare che non vuol dire granché in più del semplice non fare a botte ("ne pas se taper sur la gueule").
Personalmente, ho l'intima convinzione che convivere e coabitare, per i popoli la cui lingua sa cogliere la distinzione, siano due nozioni molto diverse. Per me, coabitano ad esempio degli studenti che si dividono le spese di un appartamento comune, stabilendo fra loro delle regole per l'occupazione degli spazi, per l'uso della doccia, del frigorifero e della lavatrice, decidendo in anticipo chi lava i piatti, come e quando, e tutto questo nell'ottica di un rispetto reciproco di spazi e libertà di cui si vuole evitare nella misura del possibile la sovrapposizione. Queste regole hanno spesso vocazione ad essere applicate rigidamente, perché la coabitazione si fonda su una specie di patto di estraneità e di non intimità malgrado le costrizioni dovute agli spazi.
Sempre nella mia personale accezione, convivono invece le persone che fanno astrazione dal regolamentare tutti questi aspetti pratici: chi cucina lo fa per tutti e chi porta giù la pattumiera o passa l'aspirapolvere lo fa per tutti; spesso c’è una divisione del lavoro, ma è fondata su criteri pratici e cede agevolmente il passo alle diverse opportunità del momento; ci si scambia di ruolo anarchicamente e senza bisogno di una regolamentazione rigida (fatte salve le comprensibili obiezioni delle nostre amiche femministe...). Chi convive va anche oltre: spesso ha un conto bancario comune, delle risorse condivise, di solito in un processo progettuale comune di vita "familiare" in cui soprattutto convergono dei valori e l'educazione degli eventuali figli. Infine, chi convive non rinuncia necessariamente alle proprie individualità, anche se deve ovviamente mediare e smussare gli angoli più di chi coabita.
Insomma, per me e probabilmente per molti italiani, la convivenza è un concetto complesso, che merita un sostantivo tutto per sé.

Allora, che cosa manca al francese per rendere conto di una nozione così peculiare? Perché ho l’impressione che questo fatto linguistico abbia un’attinenza diretta con la condizione di straniero in Francia? La lingua francese! Questa lingua piena di sfumature e di concettualità, che ha insegnato tanta filosofia all'Europa intera e a mezzo mondo. Questa lingua che non sopporta di lasciare in inglese le nuove parole che arrivano dall'informatica, che metabolizza francesizzandole le espressioni provenienti da quasi tutte le altre lingue, quando non trova nel suo vocabolario "tradizionale" un'equivalenza soddisfacente... Una lingua che ama dare un nome a tutto il pensabile, il possibile, l'envisageable.
Devo pensare forse che per il francese il nostro concetto di convivenza non sia degno di attenzione o addirittura non sia "pensabile"? E, più vicino alla storia di queste ultime settimane, mi sono anche posto una domanda da “cittadino semplice”, sapete, di quelle che vengono in mente spontaneamente al telespettatore non iniziato di telegiornali e dibattiti televisivi: i diversi popoli che costituiscono la Francia multiculturale di oggi condividono uno spazio progettuale comune? Convivono? Ci si può considerare dignitosamente stranieri, diversi a pieno titolo in mezzo ai francesi? Oppure bisogna decidere in anticipo da che ora a che ora ognuno può disporre della pubblica via per circolare con i rispettivi abiti tradizionali senza urtare la sensibilità degli altri? Semplicemente per coabitare senza fare a botte?
Che sia chiaro: questa domanda la si può fare anche a tutta l'Europa; ma oggi l'Europa è ancora un insieme di paesi che cercano una strada comune, mentre la Francia è - tra i pochissimi paesi che conosco bene - quello che ha un impianto ideologico e politico più omogeneo e strutturato, più coerente fra i diversi livelli del suo tessuto sociale ed istituzionale. E contemporaneamente quello che forse soffre più di altri di un vuoto identitario, di una specifica difficoltà di autoriconoscimento che porta ai paradossi che abbiamo constatato recentemente nelle urne elettorali.

Ecco.
È su questa domanda, che voglio chiudere Italianonelsettimo.
Le risposte sono da cercare altrove.
Il pudore mi impedisce di augurarvi, come si fa in Francia, una “buona fine” di questo orribile anno. Preferisco augurarvi, all’italiana, un felice anno nuovo.

mercoledì 14 gennaio 2015

Charlie Hebdo et l’héritage de Descartes

Mes chers enfants, 

Vous avez vécu, dimanche dernier, la première journée de manifestation de votre vie. J'ai tenu au fait que vous y soyez, une fois dissipées quelques craintes sécuritaires parentales, parce que vous êtes dans cet âge de funambule équilibriste où l'on commence à se demander pourquoi le monde est si cruel et comment faudrait-il qu'il soit. Je pense d’ailleurs que nous avons bien fait de vous y emmener: vous avez pu goûter au « nous » collectif, vous associer aux slogans de tout le monde. Et puis aussi à l'hymne national de votre pays appelant à abreuver les sillons de vos baïonnettes d'un sang impur, chanté à quelques pas de gens de mon pays à moi, qui portaient un autre tricolore ainsi qu’un drapeau aux couleurs arc-en-ciel et le mot « Pace » écrit dessus. Oh, ce n’est pas pour dire que les italiens sont meilleurs ou tous pacifistes, loin de là ! Simplement, ce jour-là les paroles de la Marseillaise et le drapeau « Pace » faisaient un contraste assez saisissant ; rassurez-vous, les gens ne pensaient pas à ce qu’ils chantaient et leurs sentiments étaient confus, certes, mais plus proches du drapeau que de l’hymne.
Et puis j’ai vu un panneau qui, paraphrasant un philosophe dont je parlerai tout à l’heure, disait « je suis, donc je pense ». Que voulait-il dire ? Sans doute « j’ai le droit de penser librement, puisque j’existe ».
Quant à moi, j'ai préféré écrire que je suis juif et musulman ensemble, bien qu'en vérité je ne sois ni l'un ni l'autre, parce qu'il me semble que ce sont eux les victimes les plus atteintes de ces journées, plus qu’un journal ou une liberté.


En marge de tout ce que je veux dire ici, à vous mes enfants, à vos concitoyens, à nos concitadins, je dois vous prévenir d’une chose importante : toutes les manifestations ne sont pas unitaires et consensuelles comme celle de dimanche. On ne remercie pas la Police, d’habitude, bien au contraire. Mais la vie est ainsi faite : il faut savoir se situer parfois d’un côté précis d’une barricade, même quand le champ de bataille présente une topographie compliquée et floue.
Quant à moi, habitué plus à faire des reproches à la Police qu’à la remercier, j’ai bien dû admettre que face à des kalachnikovs une réponse militaire était indispensable et qu’elle a été franchement efficace, professionnelle, impeccable. Mais une fois passée la vague émotionnelle, l’équilibre du jugement doit reprendre son cours normal. Et déjà en cette journée de dimanche, j'ai finalement été beaucoup plus "avec" Charlie et avec les autres, que je n'aie été « Charlie ». Alors, maintenant je pense vous devoir quelques explications, publiquement et en français contrairement à ce que je fais d’habitude dans votre vie quotidienne d’enfants bilingues, binationaux et biculturels, pour que vos compatriotes puissent m’entendre aussi. C’est important de comprendre le point de vue de l’autre, au moins autant que de savoir être solidaire.

J’avais déjà vécu l’adrénaline et le sentiment d’horreur de ces deux jours à peine écoulés, un début d’après-midi d’il y a un peu plus de 13 ans, au tout début de votre vie. A la fin de notre pause midi, les américains commencent tout juste à travailler quand un premier avion de ligne s’encastre malencontreusement dans l’un de leurs gratte-ciel aux dimensions exagérées. Au bout d’une vingtaine de minutes, un deuxième avion balaye tout doute possible sur la nature de cet « accident », puis les deux tours s’écroulent l’une après l’autre, pendant qu'arrive la nouvelle d’autres détournements, finalement on commence à compter les victimes. Dans un bureau à côté du mien, devant un poste de télé allumé, quelqu’un murmure « C’est dramatique, mais ils l’ont cherché, avec leur culture du fric à tout prix », mais dans les jours qui suivent, nous sommes tous solidaires sans réserve des américains et nous partageons leur douleur et leurs craintes ; c’est ainsi que le questionnement sur le « pourquoi » laisse rapidement sa place à une condamnation moins subtile et à la chasse à l’homme.
Déjà en 1995, quelques bombes avaient fait trembler Paris et n’avaient pas soulevé, à mon sens, assez de questions.

Que se passait-il en France à cette époque-là ?

J’y suis arrivé sur ma trentaine au début des années 1990, avec mon histoire personnelle pleine de débats et de travaux pour inventer une façon de faire dialoguer plusieurs cultures et religions en cohabitation pacifique. L’Italie, pays traditionnellement d’émigration, commençait à devenir depuis peu un pays d’immigration.
Ici, j’ai trouvé une France se vantant d’être laïque et de savoir assimiler les étrangers. Une immense quantité d’étrangers prenaient même la nationalité française, parfois oubliant jusqu’à leur langue. Tout à l’envers de ce que j’avais toujours essayé de faire avec mes camarades en Italie, les étrangers choisissant la France comme terre d’accueil devaient abandonner leurs us et coutumes, leur façon de vivre, leur concept d’hygiène personnelle et domestique, leurs structures sociales d’origine, parfois leurs modèles d’éducation et en tout cas certaines façons de s’habiller.
En France il y a des règles, disait-on, qui interdisent de cacher les cheveux, élément incontournable d’identification en cas de contrôle. Et bien, chez nous aussi il y a des règles, pensai-je, on a une loi sur les photos d’identité qui remonte aux années de plomb ; c’est assez normal. Mais j’appris également un certain nombre d’affaires « du foulard » : des adolescentes d’origine maghrébine se trouvant à devoir choisir si se voiler et être chassées de leurs écoles laïques ou se découvrir et se faire répudier par leurs familles trop traditionalistes ; et ça, du coup je le trouvais beaucoup moins normal. J’appris que vivre comme un arabe en terre de France était impossible dans les faits, il fallait choisir une chose ou l'autre. Pourtant, dans mon pays, j’ai toujours vu des religieuses catholiques bien françaises aux cheveux bien cachés venir visiter les couvents de là-bas, saluer le Pape … puis rentrer en France toujours avec la tête bien couverte, jamais inquiétées à la douane. En fin de compte, couvrir et découvrir sa tête, toutes les religions et tous les pays connaissent ces symboles simples d’humilité et de respect.
Elle me semblait bien bizarre et rigide cette prétendue « laïcité » si différente de la mienne, qui étendait ses tentacules jusqu’à l’habillement quotidien mais sans toucher vraiment tout le monde. Nous aussi, nous réclamions une école laïque en Italie, pour que la religion catholique n’occupe qu’une place parmi d’autres, nous aussi nous sommes insurgé parfois contre les crucifix dans les salles de classe. Mais jamais personne en Italie (me semble-t-il, du moins) n’avait jugé nécessaire que les gens paraissent différents de ce qu’ils sont, qu’ils se cachent pour être soi-même.
Cela me rappelait quelque chose de déjà vu, une uniformité déjà critiquée bien plus loin de nos contrées : au-delà d’un ancien mur, peut-être ? Mais non, me disais-je, je me trompe certainement, il y a forcément quelque chose qui m’échappe. La France est bien la patrie des droits de l’homme, non ?

Puis, le temps a passé sans pour autant que je comprenne. Les Présidents de la République se sont succédés, les Ministres de l’Intérieur aussi. Certains ont essayé de calmer le jeu sans trop savoir comment aller à l’encontre d’une idée enracinée ; un autre jeta de l’huile sur le feu du foulard d’une main, pendant que de l’autre créait des Conseils musulmans de je ne sais trop quoi pour les quartiers huppés de la capitale.
Entre-temps, le climat dans les banlieues connaissait des hauts et des bas. Surtout des bas, à vrai dire : les jeunes exprimaient un malaise que je ne saurais déchiffrer, fait probablement d’absences et de manques : d’histoire, d’appartenance politique et de racines culturelles, de reconnaissance… Des sacs d’ordures ménagères volaient par les fenêtres sans atteindre les poubelles, des voitures brûlaient, des doses de drogue et des coups de couteaux s’échangeaient. Plus récemment, ce sont des coups de pistolets, qui se sont échangés, mais toujours contre un ennemi non clairement identifiable, parce que quand on ne sait pas qui l’on est, il est difficile de savoir contre qui on se bat. D’ailleurs, notre voisin, vieux algérien de première génération, que dit-il à ses enfants désormais grands et à leur tour parents quand quelque chose dans leur vie ne va pas très fort ? « N’oublie pas qui tu es, mon fils, n’oublie jamais ! C’est ça qui est important et tu verras, le reste passera… ».
Mais en fait, dans la chaine de l’histoire, quelque chose s’est bien rompu et le fils de mon voisin ne sait plus vraiment qui il est. Si certaines familles ont su marier leur religion et leur terre d’accueil, faire « leur trou », d’autres par contre n’ont pas su et ont commencé à opposer leur dieu au pays qu’elles habitent. Alors, quand de l'autre côté de la Méditerranée certains courants islamistes obtus et belliqueux ont commencé leur croisade religieuse, ils ont trouvé en France un terrain parfait pour exporter leur guerre. Les visages de certaines femmes ont totalement disparu derrière des masques de fantôme, ainsi que leurs corps tout entiers jusqu’à la pointe des doigts. L’identité musulmane des hommes, qui avait dû rester discrète auparavant, montrait maintenant au grand jour qu’elle cachait ses femmes : pour les valoriser, disaient-ils. Mais en réalité pour en établir la propriété exclusive, ce qui contredisait lamentablement la capacité de l'Etat français d'affirmer ses principes égalitaires universalistes. Ce n’était plus du tout un geste humble ou de respect, mais le refus clair de concéder au regard impur des infidèles la vision de la femme, capital à la valeur quantitative dans un contexte urbanisé où posséder des chameaux est un peu compliqué.
La République des droits de l’homme ne put se soustraire à une réponse et s'engagea à son tour dans sa propre croisade laïciste. Mais le côté pédagogique de cette réponse resta bien léger, tandis que se déchainait l’arsenal juridique, parce qu’en France il y a des règles : cacher ainsi son corps ne pouvait pas se faire dans la rue, pas dans le bus ou le métro, seulement dans sa propre maison ou à la mosquée. En fait, loin de la vue des autres, comme si se couvrir trop équivalait à trop se dénuder… Et là, encore et toujours, c’étaient les femmes à être punies de ne pas se soustraire à l’imposition de leurs hommes.
Plus tard, avec ces années passées dans un quartier à majorité arabe, j’ai également rencontré de plus en plus de femmes qui se voilaient par choix personnel : je me souviens de deux femmes divorcées et d’une veuve, mères de vos camarades d’école, qui couvraient leurs cheveux et parfois le menton jusqu’à la lèvre inférieure, sans plus d’homme à la maison pour imposer ses choix. Je pense que c’était leur réponse au vide d’identité et de légitimité.
La République, par contre, savait bien qui elle était, mais contre qui se battait-elle ? Malgré les gesticulations des différents hommes d’état criant aux quatre vents que kippas et croix étaient tout aussi interdits, je trouvais difficile de lui reconnaitre un ennemi différent et moins spécifique que l'Islam.

Par ailleurs, quand je discutais avec quelqu’un ici des différences culturelles entre la France et l’Italie, j’entendais souvent me dire « Mais vous vous gouvernez tous seuls, en fait vous n’avez pas vraiment besoin d’un état » ; tantôt on me disait cela sur le ton d’un compliment, tantôt d’une critique. Toujours est-il que je me suis persuadé que si tout ceci ne s’est pas produit de la même façon en Italie ce n’est pas seulement parce que notre histoire de l’immigration est plus récente, mais aussi en partie parce que nous n’avons pas le même besoin obsessionnel d’établir des règles pour tous les menus aspects de la vie. Si là-bas on voit quelques foulards, beaucoup plus rares sont les voiles intégraux et en matière d’Islam on entend parler beaucoup plus de traditionalisme obtus que d’intégrisme agressif.
En d’autres termes, tant qu’on ne sème pas le vent…

Et pour terminer, ma petite revanche personnelle, parce que malheureusement, à l'étranger que je suis, le doute semble bien écarté de l'ADN des français en général, et de leur Etat plus particulièrement, comme si Monsieur Descartes, ce philosophe dont je voulais vous parler, avait vacciné ses successeurs. Ce monsieur, qui pointera bientôt son nez dans vos programmes d’école, prônait le doute comme méthode: une méthode "systématique", qui se veut fondement de certitude, mais aux conséquences...  bien douteuses. Je pense, donc je suis, et si je suis un être pensant c'est que Dieu existe... (je raccourcis juste un peu son raisonnement). Or, la certitude du doute a jeté les fondements de la pensée suivante, y compris scientifique, et ouvert le Siècle des Lumières. C’est ce siècle-là qui joue de tout son poids en France, encore aujourd’hui, mais de quelle façon ? J’ai l’impression que le doute ayant fait son travail de nettoyage, la place est restée propre et nette pour la certitude. Surtout la certitude du droit : le droit de passer sur la voie publique, le droit d’être là, le droit à avoir une habitation, un travail, des allocations… jusqu’au droit de s’insurger et de dire tout ce qu’on veut, y compris en dénigrant quiconque, à la seule exception des représentants de l’Etat.
Entendons-nous bien : je suis très attaché à la plupart de ces droits, que je défends.
Mais c'est ainsi, me semble-t-il, que certains dessinateurs, par ailleurs très aigus, intelligents et profondément gentils, ont dû se dire comme le panneau de tout à l’heure « je suis, donc je pense », c’est-à-dire j’ai droit à mon opinion et j’ai droit de l’exprimer, et si j’ai ce droit j’ai aussi celui de me moquer. Ils ont dû penser que les formes pour dire les choses ne changent rien aux contenus et ils ont fini, entre autres choses, par reproduire certains desseins faits dans un autre pays, se moquant d'une certaine religion moins incline à la moquerie que nous tous. Il se trouve que malheureusement cela leur a coûté beaucoup trop cher.
Encore aujourd’hui, Mahomet qui pleure à la une tenant une pancarte « Je suis Charlie » n’est pas compris, et pourtant c’est un message de paix. Une institution sunnite égyptienne très prestigieuse s’insurge contre ce nouveau dessein. Est-ce aux musulmans de comprendre que l’on peut dessiner n’importe quoi en France, ou aux journalistes français de se plier à l’interdiction de représenter Allah ou son Prophète ?

Ne pourrait-on pas plutôt se parler ?

Ces derniers jours, j'ai été très favorablement impressionné d'entendre des experts de l'Islam et de l'hébraïsme, des sociologues et même des hommes politiques français, dire qu'il y aurait forcément un avant et un après le 7 janvier 2015, que la France ne pouvait pas se dispenser de se poser certaines questions. J'ai entendu parler pour la première fois d'un changement de cap et d'une laïcité "respectueuse".
Ce constat me laisse optimiste: Monsieur Descartes sera-t-il dépoussiéré plus pour sa méthode du doute systématique et moins pour ses certitudes hâtives ?
Ne laissons pas que les ténors de la réponse sécuritaire et militaire jouent les solistes. Il y a beaucoup d’autres réponses à donner avant d’avoir à remercier la Police.

Ce sont des occasions à ne pas rater, dans l'histoire, mes enfants.


lunedì 8 dicembre 2014

I Soliti Noti: storia complicata di un'espressione pessimista

Comprendere il linguaggio dei giornalisti italiani, certe volte è complicato. Cerchiami di capire perché.

Vi ricordate gli "strilloni"? Erano quei personaggi che vendevano i giornali agli angoli delle strade e che gridavano con tutta la loro voce i titoli più sensazionali: quelli che avrebbero fatto nascere la curiosità dei lettori.
"Ultime notizie! Francesco Ferdinando d'Asburgo e Sofia uccisi a Sarajevo! Comprate il giornale!"
 
Chissà, forse questa specie di "tradizione" ha fatto storia, forse certi giornalisti non si sono mai scollati di dosso il riflesso di provocare sensazioni forti...
Sta di fatto che ancora oggi, nei titoli dei giornali italiani si usano molto delle frasi ad effetto, spesso anche a scapito della chiarezza, per chi non conosce le situazioni a cui si allude.
Mi sembra di poter dire che la ricetta con cui viene preparato un titolo è la seguente:
- prendete un fatto di cronaca "interessante" per la vendita del giornale,
- pensate ad un'allusione per chi già conosce gli antefatti,
- utilizzate per questa allusione un titolo famoso: un libro, un film, una canzone... qualsiasi cosa, basta che faccia eco nelle menti dei lettori
- se possibile cambiate leggermente questo titolo.
 
Quindi, un giorno, leggendo il giornale, trovate un titolo come questo:

Per prima cosa va detto che in italiano si dice "mondezza" (rifiuti), mentre "monnezza" è romanesco. Già questa scelta, per un titolo di giornale, è da commentare, perché slittare su un linguaggio dialettale serve a rendere più volgare e triviale il concetto di "rifiuti".
Ma poi, che cosa sono i "soliti noti"?

Dovete sapere che nel secondo dopoguerra, insieme alla corrente cinematografica del neorealismo, nacque la cosiddetta "commedia all'italiana", di cui il film "I soliti ignoti" di Mario Monicelli è l'esordio ufficiale: la storia di un furto ad una banca non riuscito, finito con un piatto di pasta e ceci come unico bottino. Questo film sembra avere una sorta di tesi: la cronaca ufficiale, quella che si legge sui giornali in veste pomposa, ha un'origine nella vita della gente normale: la vita quotidiana, quella fatta di panni da lavare (scena con Totò), bambini da sorvegliare e biberon da dare (scena con Mastroianni); sotto i grandi fatti che fanno la storia (come ad esempio la rapina di una grande banca e le ragioni del suo fallimento) ci sono le motivazioni spicciole della gente comune: se il personaggio interpretato da Vittorio Gassman rinuncia a rubare la chiavi dell'appartamento è perché si è innamorato davvero della ragazza che fa la donna di servizio e non la vuole mettere in difficoltà.
La definizione ufficiale della commedia all'italiana è dunque "trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici degli argomenti che sono invece drammatici" (Maurizio Grande, La commedia all'italiana, Bulzoni, 2003 p.224, citato in  http://it.wikipedia.org/wiki/I_soliti_ignoti).
Ma oltre a questo, "I soliti ignoti" in particolare fornirà un mattoncino in più a quell'idea delle imprese fatte "all'italiana", in cui si fanno grandi preparativi che poi si risolvono in una bolla di sapone.
I "soliti" ignoti: perché i ladri non verranno ritrovati e puniti, come al solito. Tutto sommato, è italiana anche la Polizia...

Perché, allora, i "soliti noti" si aggiudicano gli appalti per lo smaltimento dei rifiuti ("mondezza")?
Ebbene, per gli stessi motivi, con la sola variante che stavolta si sa benissimo di chi si tratta, ma (come al solito) non si riesce a fare una gara d'appalto seria.

martedì 15 aprile 2014

Stella di Gabriele Salvatores: i dialoghi

Maintenant que vous avez regardé plusieurs fois le court-metrage, vous pouvez confronter vos notes avec la transcription des dialogues que j'ai faite:

Stella, di Gabriele Salvatores
(Progetto PerFiducia)


Padrone del negozio: - Signorina! 
Bambina: - Grazie, che bello!
Padrone del negozio: - Ahò!

(Incidente)

All’ospedale:
Medico: - Ha degli occhi bellissimi. Sembra molto intelligente.
Assistente sociale: - Come sta?
Medico: - Ha riportato delle lesioni gravi all’arto inferiore; temiamo possa perdere la gamba.
Assistente sociale: - Gli avete già detto della madre?
Medico: - Aspettiamo la psicologa. Lei la conosceva?
Assistente sociale: -  Tossicodipendente, senza un lavoro fisso… e adorava sua figlia.
Medico: - E con lei cosa pensate di fare?
Assistente sociale: - Il padre non l’ha mai conosciuto, non ci sono altri parenti. Stella! Stella? Stella!

27 anni dopo

Candidata: - E vabbè, non è che ho fatto la scuola alberghiera… Non ho fatto nessuna scuola. Più che altro mi vengono bene i dolci.
Chef: - Lo so. L’altra sera per caso mio marito ha cenato nella trattoria dove lavori tu. Dice che una torta al cioccolato buona come la tua non l’aveva mai assaggiata. Mi serve un capo pasticcere. Ti va di lavorare qui?
Candidata: - Sta scherzando?! Lei è un grande chef. Questo è uno dei migliori ristoranti…
Chef: - Conosco il mio ristorante! Parlami di te, piuttosto: non so, cosa hai fatto… da dove vieni…
Candidata: - Non ho fatto granché, finora, a parte un mucchio di cazzate. Me la sono sempre dovuta cavare da sola, io. Diciamo pure che ci sono cresciuta, da sola. Non c’era nessuno a dirmi come si fa. Poi lì… lì ho incontrato… ho incontrato le persone sbagliate! Sì, si dice così, no? Le persone sbagliate… Sbagliata?! Forse sono io quella sbagliata, sono io quella sbagliata, non so… Io non lo sapevo, non immaginavo, lui era un pregiudicato, io mi trovavo lì in quel momento, non potevo fare altro, non potevo sapere. È stata una leggerezza!
Chef: - … Che ti è costata tre mesi di carcere per favoreggiamento. È tutto a posto. Volevo solo essere sicura che tu non mi dicessi bugie.
Candidata: - Vuol dire che mi assume lo stesso?
Chef: - Una vita difficile non è una colpa. In effetti non dovrebbe essere nemmeno un alibi. E poi a me piacciono le persone che lottano. [si alza, cammina appoggiandosi ad un bastone]
Candidata: - Posso chiedere una cosa? Quello… cos’è?
Chef: - Quello… è stato l’ultimo regalo che mi ha fatto mia madre. Da quel giorno forse sto solo cercando di meritarmelo.




P.S.: Pour mémoire: pas de cours la semaine prochaine; rendez-vous le 29 avril.

martedì 14 gennaio 2014

Stella, Un cortometraggio di Gabriele Salvadores

Vous connaissez sans doûte Gabriele Salvadores... Souvenez-vous: "Mediterraneo".
Aujourd'hui, nous avons regardé ensemble son court-métrage "Stella".
L'exercice que je vous propose, maintenant, est de revenir sur ce film; vous le retrouverez ici: Stella.

Regardez-le une première fois en entier; vous connaissez déjà la fin, donc la surprise n'est plus là.
Ensuite relancez-le à nouveau et arrêtez-vous à chacun des passages où le dialogue vous pose problème, revenez en arrière et réécoutez à plusieurs reprises. Confrontez avec les notes prises pendant le cours.

C'est à vous !