Avevo deciso già da qualche tempo di sospendere questo blog, diventato un
po' inutile dopo la fine dei corsi di italiano. I post si sono fatti sempre più
rari ed hanno riguardato sempre meno questioni di lingua; smettere è quindi
logico.
Perciò questo biglietto è anche un saluto a quei pochi che lo hanno
seguito. Chissà, forse riprenderò Italianonelsettimo un giorno, se mai ci sarà
un altro corso, ma non so dirlo adesso.
La Francia che ho visto e vissuto in quest'anno 2015 ha anche rimescolato
in me pensieri che si erano sedimentati e mi ha fatto capire di avere altri
motivi più profondi e personali che attualmente non mi aiutano a continuare il
mio confronto con la cultura francese sulle basi consensuali che ho avuto
finora. Quindi per ora è più urgente occuparmi di altro, e in un altro modo.
Ho scritto e riscritto
cento volte questo biglietto, ed alla fine ho deciso di limitarlo ad una sola
serie di domande.
Questo è nato come un
blog che si occupa di lingua e civilizzazione, non come un forum in cui si
discute di politica e filosofia. Ma da Charlie Hebdo al Bataclan, il 2015 è
stato difficile per tutti. Per me il più difficile è il contorno di tutto
questo, fatto di una semantica sovraccarica e indigesta.
Charlie Hebdo era ancora,
come le Torri Gemelle del 2001, un obiettivo molto caratterizzato
ideologicamente; si poteva pensare che l'Islam radicale volesse punire delle
idee e delle opere precise, una certa "aggressività" del capitalismo
o della satira, forse perfino un certo radicalismo esasperato
dell'anti-religiosità di Stato (così intesi l'attentato di gennaio).
Invece il concerto al
Bataclan, la partita allo Stade de France e ancor di più le terrazze dei
ristoranti parigini non sono portatori di una simbologia ideologica di parte,
sono obiettivi per noi "banali", e questo mi fa molta più paura. Del
resto, la rivendicazione non poteva essere più chiara: ciò che è stato colpito
il 13 novembre è il nostro modo di vita quotidiano, fatto di musica, incontri,
sport. E poi, soprattutto, fatto di condivisione, di chiacchierate sincere tra
amici a viso scoperto, di uomini e di donne che si sanno guardare negli occhi,
senza veli in mezzo: una condivisione che lo stato islamico definisce
"depravata" e che per noi costituisce l'essenza della civiltà. Anche
il fatto che certi giornalisti attribuiscano questo stile di vita ad una
fantomatica e limitata “génération Bataclan” mi ferisce come un esproprio
ingiusto: uscire di casa, esporsi al mondo e nello stesso tempo guardare il
mondo, discutere della vita con gli amici, ascoltare e praticare musica, è un
modo di vita cui si aderisce anche a 40, a 50, a 60 anni ed oltre, con le sole
limitazioni contingenti di un ritmo di vita che si evolve.
Ma questo è un dettaglio.
È molto più importante,
invece, quello che un paese ed un popolo esprimono di se stessi. Lo stato
islamico, come un'antica setta medievale, parla dell'Occidente come del regno
della depravazione; si è detto giustamente che vuole dividere, polarizzare,
radicalizzando il conflitto e mettendo dalla propria parte chiunque si senta
escluso dal sistema culturale occidentale. Coltiva l'odio e la guerra
"santa" come mille anni fa il cristianesimo faceva le sue crociate.
Vi ricordate, forse, che
il termine "santo" viene da "sanctus", strettamente
apparentato con "scisso", con "sancito" e con “setta”? È
santo quel che non va mescolato, che anzi va tenuto separato.
E la Francia cosa dice,
come si esprime? Anche la Francia fa sante crociate. Di un altro segno, ma sempre
sante crociate sono. Perché, in un'opposizione ideologica così radicale, gli
atteggiamenti risultano così tristemente simili? La Francia parla di laicità
come fosse una religione di stato irrinunciabile ed assoluta, parla di togliere
la cittadinanza ad alcuni come la si è data, quasi fosse un premio o una
medaglietta per i bambini bravi e meritori a fine anno scolastico.
Subito dopo gli attentati
di novembre, su un social network, partecipavo ad un dibattito a proposito
degli attentati di Parigi e del rapporto che ha questo paese con le popolazioni
immigrate e anche con quelle ormai radicate da tempo, ma che non riescono a “dimenticare” la propria origine
(sì, lo dico apposta: l’assimilazione che la Francia richiede implicherebbe un
oblio spesso impossibile).
E mentre scrivevo mi sono
reso conto brutalmente di non conoscere in francese un'espressione
soddisfacente per il concetto di convivenza. Non a caso, mi ha aiutato a
chiarire il mio pensiero l'intervento di una persona di origine italiana, come
me. I francesi hanno il termine "cohabitation" e devono sostantivare
un verbo per creare l'espressione "vivre ensemble" che altrimenti non
ha un sostantivo suo. Ieri, mi è capitato di ascoltare in televisione un
dibattito in cui questo concetto di "vivre ensemble" veniva
richiamato per precisare che non vuol dire granché in più del semplice non fare
a botte ("ne pas se taper sur la gueule").
Personalmente, ho
l'intima convinzione che convivere e coabitare, per i popoli la cui lingua sa
cogliere la distinzione, siano due nozioni molto diverse. Per me, coabitano ad
esempio degli studenti che si dividono le spese di un appartamento comune,
stabilendo fra loro delle regole per l'occupazione degli spazi, per l'uso della
doccia, del frigorifero e della lavatrice, decidendo in anticipo chi lava i piatti, come e quando, e tutto questo
nell'ottica di un rispetto reciproco di spazi e libertà di cui si vuole evitare
nella misura del possibile la sovrapposizione. Queste regole hanno spesso
vocazione ad essere applicate rigidamente, perché la coabitazione si fonda su una
specie di patto di estraneità e di non intimità malgrado le costrizioni
dovute agli spazi.
Sempre nella mia
personale accezione, convivono invece le persone che fanno astrazione dal
regolamentare tutti questi aspetti pratici: chi cucina lo fa per tutti e chi
porta giù la pattumiera o passa l'aspirapolvere lo fa per tutti; spesso c’è una
divisione del lavoro, ma è fondata su criteri pratici e cede agevolmente il
passo alle diverse opportunità del momento; ci si scambia di ruolo
anarchicamente e senza bisogno di una regolamentazione rigida (fatte
salve le comprensibili obiezioni delle nostre amiche femministe...). Chi
convive va anche oltre: spesso ha un conto bancario comune, delle risorse
condivise, di solito in un processo progettuale comune di vita
"familiare" in cui soprattutto convergono dei valori e l'educazione
degli eventuali figli. Infine, chi convive non rinuncia necessariamente alle
proprie individualità, anche se deve ovviamente mediare e smussare gli angoli
più di chi coabita.
Insomma, per me e
probabilmente per molti italiani, la convivenza è un concetto complesso, che
merita un sostantivo tutto per sé.
Allora, che cosa manca al
francese per rendere conto di una nozione così peculiare? Perché ho
l’impressione che questo fatto linguistico abbia un’attinenza diretta con la
condizione di straniero in Francia? La lingua francese! Questa lingua piena di
sfumature e di concettualità, che ha insegnato tanta filosofia all'Europa
intera e a mezzo mondo. Questa lingua che non sopporta di lasciare in inglese
le nuove parole che arrivano dall'informatica, che metabolizza francesizzandole
le espressioni provenienti da quasi tutte le altre lingue, quando non trova nel
suo vocabolario "tradizionale" un'equivalenza soddisfacente... Una
lingua che ama dare un nome a tutto il pensabile, il possibile, l'envisageable.
Devo pensare forse che
per il francese il nostro concetto di convivenza non sia degno di attenzione o
addirittura non sia "pensabile"? E, più vicino alla storia di queste
ultime settimane, mi sono anche posto una domanda da “cittadino semplice”,
sapete, di quelle che vengono in mente spontaneamente al telespettatore non
iniziato di telegiornali e dibattiti televisivi: i diversi popoli che
costituiscono la Francia multiculturale di oggi condividono uno spazio
progettuale comune? Convivono? Ci si può considerare dignitosamente stranieri,
diversi a pieno titolo in mezzo ai francesi? Oppure bisogna decidere in
anticipo da che ora a che ora ognuno può disporre della pubblica via per
circolare con i rispettivi abiti tradizionali senza urtare la sensibilità degli
altri? Semplicemente per coabitare senza fare a botte?
Che sia chiaro: questa
domanda la si può fare anche a tutta l'Europa; ma oggi l'Europa è ancora un
insieme di paesi che cercano una strada comune, mentre la Francia è - tra i
pochissimi paesi che conosco bene - quello che ha un impianto ideologico e politico
più omogeneo e strutturato, più coerente fra i diversi livelli del suo tessuto
sociale ed istituzionale. E contemporaneamente quello che forse soffre più di
altri di un vuoto identitario, di una specifica difficoltà di
autoriconoscimento che porta ai paradossi che abbiamo constatato recentemente
nelle urne elettorali.
Ecco.
È su questa domanda, che
voglio chiudere Italianonelsettimo.
Le risposte sono da
cercare altrove.
Il pudore mi impedisce di
augurarvi, come si fa in Francia, una “buona fine” di questo orribile anno.
Preferisco augurarvi, all’italiana, un felice anno nuovo.