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Corso di italiano per francesi, Cours d'italien pour français, Parigi, Paris, 7e arrondissement, 75007, Tous niveaux: débutant, intermédiaire, avancé, Tutti i livelli: principiante, intermedio, avanzato

mercoledì 30 dicembre 2015

Coabitare o convivere: l'ultimo quesito



Avevo deciso già da qualche tempo di sospendere questo blog, diventato un po' inutile dopo la fine dei corsi di italiano. I post si sono fatti sempre più rari ed hanno riguardato sempre meno questioni di lingua; smettere è quindi logico.
Perciò questo biglietto è anche un saluto a quei pochi che lo hanno seguito. Chissà, forse riprenderò Italianonelsettimo un giorno, se mai ci sarà un altro corso, ma non so dirlo adesso.
La Francia che ho visto e vissuto in quest'anno 2015 ha anche rimescolato in me pensieri che si erano sedimentati e mi ha fatto capire di avere altri motivi più profondi e personali che attualmente non mi aiutano a continuare il mio confronto con la cultura francese sulle basi consensuali che ho avuto finora. Quindi per ora è più urgente occuparmi di altro, e in un altro modo.

Ho scritto e riscritto cento volte questo biglietto, ed alla fine ho deciso di limitarlo ad una sola serie di domande.

Questo è nato come un blog che si occupa di lingua e civilizzazione, non come un forum in cui si discute di politica e filosofia. Ma da Charlie Hebdo al Bataclan, il 2015 è stato difficile per tutti. Per me il più difficile è il contorno di tutto questo, fatto di una semantica sovraccarica e indigesta.
Charlie Hebdo era ancora, come le Torri Gemelle del 2001, un obiettivo molto caratterizzato ideologicamente; si poteva pensare che l'Islam radicale volesse punire delle idee e delle opere precise, una certa "aggressività" del capitalismo o della satira, forse perfino un certo radicalismo esasperato dell'anti-religiosità di Stato (così intesi l'attentato di gennaio).
Invece il concerto al Bataclan, la partita allo Stade de France e ancor di più le terrazze dei ristoranti parigini non sono portatori di una simbologia ideologica di parte, sono obiettivi per noi "banali", e questo mi fa molta più paura. Del resto, la rivendicazione non poteva essere più chiara: ciò che è stato colpito il 13 novembre è il nostro modo di vita quotidiano, fatto di musica, incontri, sport. E poi, soprattutto, fatto di condivisione, di chiacchierate sincere tra amici a viso scoperto, di uomini e di donne che si sanno guardare negli occhi, senza veli in mezzo: una condivisione che lo stato islamico definisce "depravata" e che per noi costituisce l'essenza della civiltà. Anche il fatto che certi giornalisti attribuiscano questo stile di vita ad una fantomatica e limitata “génération Bataclan” mi ferisce come un esproprio ingiusto: uscire di casa, esporsi al mondo e nello stesso tempo guardare il mondo, discutere della vita con gli amici, ascoltare e praticare musica, è un modo di vita cui si aderisce anche a 40, a 50, a 60 anni ed oltre, con le sole limitazioni contingenti di un ritmo di vita che si evolve.
Ma questo è un dettaglio.
È molto più importante, invece, quello che un paese ed un popolo esprimono di se stessi. Lo stato islamico, come un'antica setta medievale, parla dell'Occidente come del regno della depravazione; si è detto giustamente che vuole dividere, polarizzare, radicalizzando il conflitto e mettendo dalla propria parte chiunque si senta escluso dal sistema culturale occidentale. Coltiva l'odio e la guerra "santa" come mille anni fa il cristianesimo faceva le sue crociate.
Vi ricordate, forse, che il termine "santo" viene da "sanctus", strettamente apparentato con "scisso", con "sancito" e con “setta”? È santo quel che non va mescolato, che anzi va tenuto separato.

E la Francia cosa dice, come si esprime? Anche la Francia fa sante crociate. Di un altro segno, ma sempre sante crociate sono. Perché, in un'opposizione ideologica così radicale, gli atteggiamenti risultano così tristemente simili? La Francia parla di laicità come fosse una religione di stato irrinunciabile ed assoluta, parla di togliere la cittadinanza ad alcuni come la si è data, quasi fosse un premio o una medaglietta per i bambini bravi e meritori a fine anno scolastico.

Subito dopo gli attentati di novembre, su un social network, partecipavo ad un dibattito a proposito degli attentati di Parigi e del rapporto che ha questo paese con le popolazioni immigrate e anche con quelle ormai radicate da tempo, ma che non  riescono a “dimenticare” la propria origine (sì, lo dico apposta: l’assimilazione che la Francia richiede implicherebbe un oblio spesso impossibile).
E mentre scrivevo mi sono reso conto brutalmente di non conoscere in francese un'espressione soddisfacente per il concetto di convivenza. Non a caso, mi ha aiutato a chiarire il mio pensiero l'intervento di una persona di origine italiana, come me. I francesi hanno il termine "cohabitation" e devono sostantivare un verbo per creare l'espressione "vivre ensemble" che altrimenti non ha un sostantivo suo. Ieri, mi è capitato di ascoltare in televisione un dibattito in cui questo concetto di "vivre ensemble" veniva richiamato per precisare che non vuol dire granché in più del semplice non fare a botte ("ne pas se taper sur la gueule").
Personalmente, ho l'intima convinzione che convivere e coabitare, per i popoli la cui lingua sa cogliere la distinzione, siano due nozioni molto diverse. Per me, coabitano ad esempio degli studenti che si dividono le spese di un appartamento comune, stabilendo fra loro delle regole per l'occupazione degli spazi, per l'uso della doccia, del frigorifero e della lavatrice, decidendo in anticipo chi lava i piatti, come e quando, e tutto questo nell'ottica di un rispetto reciproco di spazi e libertà di cui si vuole evitare nella misura del possibile la sovrapposizione. Queste regole hanno spesso vocazione ad essere applicate rigidamente, perché la coabitazione si fonda su una specie di patto di estraneità e di non intimità malgrado le costrizioni dovute agli spazi.
Sempre nella mia personale accezione, convivono invece le persone che fanno astrazione dal regolamentare tutti questi aspetti pratici: chi cucina lo fa per tutti e chi porta giù la pattumiera o passa l'aspirapolvere lo fa per tutti; spesso c’è una divisione del lavoro, ma è fondata su criteri pratici e cede agevolmente il passo alle diverse opportunità del momento; ci si scambia di ruolo anarchicamente e senza bisogno di una regolamentazione rigida (fatte salve le comprensibili obiezioni delle nostre amiche femministe...). Chi convive va anche oltre: spesso ha un conto bancario comune, delle risorse condivise, di solito in un processo progettuale comune di vita "familiare" in cui soprattutto convergono dei valori e l'educazione degli eventuali figli. Infine, chi convive non rinuncia necessariamente alle proprie individualità, anche se deve ovviamente mediare e smussare gli angoli più di chi coabita.
Insomma, per me e probabilmente per molti italiani, la convivenza è un concetto complesso, che merita un sostantivo tutto per sé.

Allora, che cosa manca al francese per rendere conto di una nozione così peculiare? Perché ho l’impressione che questo fatto linguistico abbia un’attinenza diretta con la condizione di straniero in Francia? La lingua francese! Questa lingua piena di sfumature e di concettualità, che ha insegnato tanta filosofia all'Europa intera e a mezzo mondo. Questa lingua che non sopporta di lasciare in inglese le nuove parole che arrivano dall'informatica, che metabolizza francesizzandole le espressioni provenienti da quasi tutte le altre lingue, quando non trova nel suo vocabolario "tradizionale" un'equivalenza soddisfacente... Una lingua che ama dare un nome a tutto il pensabile, il possibile, l'envisageable.
Devo pensare forse che per il francese il nostro concetto di convivenza non sia degno di attenzione o addirittura non sia "pensabile"? E, più vicino alla storia di queste ultime settimane, mi sono anche posto una domanda da “cittadino semplice”, sapete, di quelle che vengono in mente spontaneamente al telespettatore non iniziato di telegiornali e dibattiti televisivi: i diversi popoli che costituiscono la Francia multiculturale di oggi condividono uno spazio progettuale comune? Convivono? Ci si può considerare dignitosamente stranieri, diversi a pieno titolo in mezzo ai francesi? Oppure bisogna decidere in anticipo da che ora a che ora ognuno può disporre della pubblica via per circolare con i rispettivi abiti tradizionali senza urtare la sensibilità degli altri? Semplicemente per coabitare senza fare a botte?
Che sia chiaro: questa domanda la si può fare anche a tutta l'Europa; ma oggi l'Europa è ancora un insieme di paesi che cercano una strada comune, mentre la Francia è - tra i pochissimi paesi che conosco bene - quello che ha un impianto ideologico e politico più omogeneo e strutturato, più coerente fra i diversi livelli del suo tessuto sociale ed istituzionale. E contemporaneamente quello che forse soffre più di altri di un vuoto identitario, di una specifica difficoltà di autoriconoscimento che porta ai paradossi che abbiamo constatato recentemente nelle urne elettorali.

Ecco.
È su questa domanda, che voglio chiudere Italianonelsettimo.
Le risposte sono da cercare altrove.
Il pudore mi impedisce di augurarvi, come si fa in Francia, una “buona fine” di questo orribile anno. Preferisco augurarvi, all’italiana, un felice anno nuovo.